- Angela Marino

- 13 nov
- Tempo di lettura: 2 min

Il paradosso dell’infanticidio materno: reato rarissimo, ma raccontato come emergenza permanente. Un fenomeno che ci sbatte in faccia le due grandi rimozioni italiane: il mito della madre perfetta e il tabù sul disagio psichico. Sopravvive solo la favola nera: “era una madre normale, poi d’improvviso…”.
In Italia, oggi, i casi di figlicidio sono pochi, pochissimi. Secondo i dati disponibili, dal 2000 al 2023 se ne contano circa 535, ovvero il 12,7% degli omicidi commessi in ambito familiare. Di questi, solo una parte minoritaria è attribuibile alle madri. Eppure, ogni volta che una madre uccide un figlio, l’effetto sulle nostre home page è quello di una bomba: pagine intere, speciali, il solito pellegrinaggio «Da Annamaria Franzoni a Veronica Panarello», come se l’Italia fosse attraversata da una scia infinita di madri assassine. Non è così nei numeri.
Ma nell’immaginario, sì.
Perché? Perché l’infanticidio materno è il delitto che spezza il patto simbolico più profondo: quello della madre che protegge. Dal punto di vista psicologico e culturale, non c’è figura più caricata di aspettative: la madre deve essere accudente, sacrificata, disponibile. Quando è proprio lei a uccidere, non vediamo “un omicidio”, ma l’inversione del mondo. E noi giornalisti, su questa frattura, costruiamo format narrativi potentissimi: “l’angelo che si rivela demone”, “una vita normale spezzata”. L’ho fatto anch’io, anni fa, spinta da un modo di raccontare che sembrava inevitabile. Non lo è.
C’è una domanda che raramente trova spazio in questo storytelling: cosa non ha funzionato prima? Quasi tutti i casi più recenti raccontano storie in cui erano già in gioco servizi sociali, consultori, centri di salute mentale, tribunali che decidono affidi complicatissimi, famiglie allargate lasciate sole a reggere equilibri impossibili. Ma nel racconto giornalistico questi elementi compaiono come dettagli marginali, non come centro del discorso. È più facile scrivere “madre killer” che interrogare il sistema: le liste d’attesa per la salute mentale, la carenza cronica di psicologi nei servizi pubblici, la difficoltà di intervenire quando un genitore è in difficoltà ma non compie ancora reati.
Questo tipo di delitti sbatte in faccia due grandi rimozioni italiane: il mito della madre perfetta e il tabù sul disagio psichico. Sopravvive solo la favola nera: “era una madre normale, poi d’improvviso…”. Ma non è “d’improvviso”. È un lento accumulo. Cambiare prospettiva di lettura ci aiuterà forse a mettere a fuoco le lacune da riempire, le crepe da risanare e i punti dove è possibile ricostruire. Non è buonismo, è prevenzione. Perché finché rimarremo lì a guardare con il dito puntato, perderemo di vista tutto il resto: le fragilità, i segnali ignorati, i servizi che non funzionano, le occasioni mancate per intervenire prima. E continueremo a raccontare l’orrore, senza mai davvero provare a impedirlo.



